Intervista a Beatrice Antolini @ Circolo degli Artisti – Roma, 11 Dicembre 2010
Abbiamo incontrato Beatrice Antolini in occasione della presentazione romana di “BioY”, ultima grande fatica della musicista maceratese. Le chiacchiere sono a zero, occhio che qui si parla di bìos, musica, e crismi personali.
Giovanissima, 28 anni, una vita spesa tra Macerate e Bologna. Il piano, il teatro e la musica. Sono tutti amori nati contemporaneamente?
Sai, la vita spesso non è esattamente un percorso rettilineo, ma casomai una specie di cerchio dove tutto ciò che fai, alla fine, racchiude un’effettività unica. Perlomeno, per me è andata proprio così e spero, anche, di potermela vivere in questo modo fra qualche anno. Ogni cosa che ho realizzato come persona è sempre rientrata nei miei dischi, anche il corso di tip tap che frequentavo fino allo scorso anno in qualche modo ha influenzato i miei lavori!
Concordo, e difatti aggiungerei che la tua è veramente un’anima da palcoscenico. Ti nutri probabilmente di tantissime cose diverse contemporaneamente.
Si, è davvero così, e delle volte, ad esempio, mi colpevolizzo parecchio per non ascoltare tanta musica come vorrei. Ma magari leggo libri o faccio altre esperienze ugualmente importanti. Cosa che, se ci pensi bene, non è poi così negativa, specie se riesce ad arricchirti professionalmente ed umanamente. D’altronde la musica è sempre frutto di un’ispirazione che non arriva mai a comando, non puoi cercarla più di tanto. E nel mio caso, sicuramente, giunge da tutte quelle impressione che riesco a ricavare dal mondo e da ciò che faccio. Alla fine tutta questa roba confluisce all’unisono nei pezzi che scrivo.
Parti con “Big Saloon” (2006), segue “A Due” (2008). Adesso tocca a “BioY” presentarci la tua nota indole impetuosa. Anche questa volta hai interamente scritto, registrato e suonato quasi tutto da sola. Ti senti complessivamente soddisfatta del risultato finale?
Si abbastanza, non mi lamento, credo di aver fatto il massimo. O meglio, solitamente faccio sempre quello che posso, anche se purtroppo, spesso, mi capita di dover fare i conti con il ‘vorrei ma non posso’! Se potessi davvero produrre un pezzo con tutti i ‘crismi’ che ho nella testa e se avessi davvero a disposizione tutti i mezzi per poterlo fare, certamente vorrei realizzare un album che suonasse, come minimo, dieci volte meglio. Forse faccio anche di più rispetto alle possibilità che mi sono concretamente concesse. Con “BioY” mi sono completamente lanciata, provando a fare pezzi quasi psychedelic-funk che avrebbero bisogni di studi, produttori e strumenti di un certo tipo e che obiettivamente, nel mio quotidiano, non sono proprio a portata di mano. Ma che ti devo dire, ho voluto farlo ugualmente e siete liberi di criticarmi! Sai, potrà sembrarti strano, ma viviamo un contro-senso storico: più aumentano i mezzi tecnologici di produzione e più, paradossalmente, nessuno viene potenziato a fare ciò che potrebbe davvero realizzare!
I titoli dei tuoi album sono sempre stati abbastanza ragionati. Che cosa ti è venuto in mente questa volta per “BioY”?
Il termine “BioY” è nato quasi spontaneamente nella mia testa. Poi, come spesso capita, faccio delle ricerche, anche in altre lingue, per capire il perché dell’insorgere di quella parola particolare. Pensa che scopro sempre dei significati pazzeschi! Innanzitutto, come titolo “BioY” mi è piaciuto da subito perché c’è di mezzo il bìos, ovvero tutto ciò che è organico e vitale. Ma c’è anche la parola ‘io’, così come la lettera ‘o’ a simboleggiare il cerchio, che come ti dicevo rappresenta un po’ il mio modo di intendere l’esistenza. Inoltre, la lettera ‘Y’ analogicamente potrebbe essere una strada che se vista dall’alto riesce a farsi unica, ma se osservata dal basso si dirama verso due percorsi distinti. Questo mi ha portato a pensare alla separazione fin troppo classica tra il corpo e la mente, cioè a quel razionalismo che ha sempre attribuito la ragione alla sola testa. Viceversa mi trovo più concorde nel pensare che in noi c’è primariamente un’intelligenza del corpo che funziona, casomai, insieme a quella della mente.
Interpretando per un attimo ciò che mi hai appena detto, sembrerebbe quasi che “BioY” sia la ‘fine organica’ di un percorso che oramai reputi compiuto. Magari è il risultato finale di una trilogia iniziata con “Big Saloon”?
Probabilmente hai ragione, è davvero così. La tua osservazione sulla trilogia potrebbe essere un ragionamento interessante. Se non altro perché di una cosa sono certa: dopo “BioY” vorrei spaziare verso qualcosa di molto diverso, cambiando la metodologia e l’approccio di ricerca. E chissà, magari nel prossimo lavoro uscirà fuori qualcosa di totalmente diverso rispetto a quanto avete ascoltato finora. Sì, direi che trattandosi di me potrebbe perfettamente capitare!
Sei una musicista molto esigente. I tuoi album hanno una ponderosità strumentale e compositiva non indifferente, ciò nonostante riescono sempre a stimolare un ascolto compatto e omogeneo. Parlando appunto di ‘crismi’, come ti rapporti solitamente al processo di produzione creativa?
Quando ero più piccola era molto totalizzante. Ho vissuto periodi strani, quasi in completa solitudine proprio perché non avevo altro interesse se non quello di comporre la mia musica al massimo dello sforzo e con i miei mezzi. Oggi come oggi, me la vivo assolutamente meglio, perché crescendo mi rendo conto che la musica, pur facendo parte di me, non deve uccidermi, né condizionare la mia intera esistenza.
Sei la ragazza dalle mille collaborazioni: Baustelle, Gennifer Gentle, Afterhours, Velvet, in ultimo Andy al sax di We’re Gonna Live e Eastern Sun. Mai pensato ad una collaborazione tutta al femminile?
Non è stata una scelta deliberata ma assolutamente spontanea quella di collaborare insieme a tutti loro. O perlomeno, in Italia, è più probabile collaborare con musicisti uomini perché sono un quantitativo nettamente più alto rispetto alle donne. Una situazione, questa, che logicamente non mi esalta, casomai mi rattrista molto. Al momento, comunque, non ho in mente nessuna collaborazione ‘al femminile’ in particolare. Ti posso dire, però, che in Italia apprezzo moltissimo Alessandra Contini de Il genio, trovo che sia una bassista eccezionale. All’estero, poi, ce ne sarebbero tantissime. Sogno dicendoti che mi piacerebbe collaborare con le ‘grosse’: Diamanda Galás, PJ Harvey e Patti Smith!
Vista la passione e l’introspezione che solitamente metti nei tuoi brani, ti propongo un esperimento: prova a pensarti in terza persona. Dunque ti chiedo: quali caratteristiche dovrebbe avere un album di Beatrice Antolini, per essere considerato un lavoro ‘perfetto’ ?
Effettivamente ho tantissimi album perfetti che di certo non sono i miei! Proprio l’altro giorno riascoltando Remain in Light dei Talking Heads, ho pensato a come si fa a creare un album di così rara bellezza. È davvero difficile fare un album perfetto e non so se ci riuscirò mai.
La situazione italiana è molto complicata, specie per la musica. E onestamente ho anche l’impressione che essere donna, metti poi se musicista, in determinati contesti professionali - ancora molto maschilisti - non aiuta. Mentre preparavo l’intervista ho chiesto ad un ‘campione’ di individui-maschi cosa ne pensassero dei tuoi lavori… ma effettivamente in pochi si sono soffermati sulla tua discografia!
Posso semplicemente dirti che ho sempre suonato con impegno e onestà, e spesso non ho nemmeno il tempo di guardarmi allo specchio. Altro che vita femminile, carico e scarico gli strumenti praticamente sempre e, in fondo, chi se ne frega, amo questo lavoro e lo faccio volentieri e con passione. Chiaramente questo non significa mettersi il burqa, o magari il maglioncino coi buchi perché fa alternativo. Comunque sia ringrazio ugualmente il ‘campione’ interpellato!
Hai dichiarato, molto spesso, che trovi demodé differenziare tra mainstream ed etichette indipendenti. Scherzavi, eri seria o sei troppo buona?
Sono ancora di questa idea. Conosco moltissima gente che è considerata mainstream ma che in realtà fa tutto in autoproduzione. La storia degli indipendenti esiste da anni, anche Celentano si è autoprodotto a suo tempo. Ti dico questo perché ho l’impressione che la storiella dell’indie sia più una questione di aggregazione giovanile che altro. E magari il rischio, poi, è anche quello di credere che l’indie sia un genere…
Ok, però se escludiamo tutte l’estetica generazionale che fa da contorno a questo termine, obiettivamente esiste una grossa differenza che non si può negare: ad esempio, è molto più probabile scorgere dell’ottima ‘sperimentazione’ nelle distribuzioni indipendenti che nelle major.
Ma non è detto che sia sempre una ‘scelta’ vera e propria quella di uscire sul mercato con una precisa etichetta piuttosto che con un’altra. Cioè, se l’Emi mi permettesse di far uscire un album con tutti i mie ‘crismi’ personali, non troverei di certo umiliante accettare la proposta.
“BioY” sta andando più che bene, il tour promozionale anche, cos’altro capiterà a Beatrice Antolini nel 2011?
Come ti dicevo, voglio cambiare aria e curare di più altri aspetti artistici che riguardano non solo la mia musica ma anche la mia persona. Voglio capire dove sto andando a parare. Sai, ci vuole ogni tanto un periodo di riflessione.
Intervista in collaborazione con Rubric.it
11/12/2010