Innanzitutto, come va il tour, e come sta andando il nuovo album?
Gionata: Il tour è appena cominciato, le prime date che abbiamo fatto sono andate abbastanza bene, era un po’ che non suonavamo dal vivo perché siamo stati fermi un po’, però direi bene…e il disco altrettanto, i primi feedback sono stati estremamente positivi e questa è una cosa…estremamente…positiva (ride, ndr).
Parlando del disco nuovo, ho notato che c’è un sacco di carne al fuoco, mi sembra tutto più complesso rispetto a prima, la musica ma soprattutto i testi danno l’idea di essere più studiati. Si è trattata di una scelta voluta e ragionata?
G: Parlando dei testi, dato che li scrivo al 99% io, direi che hai ragione: a me per esempio quelli del primo disco non piacciono, e a parte qualche eccezione li trovo piuttosto adolescenziali, ingenui, ecco. Un po’ troppo semplici, e anche se comunque condivido quello che ho scritto cinque o sei anni fa, il modo in cui è stato scritto non mi fa impazzire. Già con “Small Rooms” c’è stato uno studio diverso sull’uso della parola, delle costruzioni in inglese, ho cercato di ampliare un attimo il tipo di tiro che volevo dare al testo; questo disco vorrebbe essere un po’ più conciso rispetto a “Small Rooms” come parole, e i concetti espressi sono un po’ più efficaci; vorrei riuscire ad avere una forma poetica, anche se è una parola gigantesca per quanto mi riguarda, credibile e una via di comunicazione abbastanza veloce: per fare un esempio, Paolo Conte con due parole esprime concetti giganteschi, ti fa una fotografia stupenda con solo due parole, e questa è una cosa che mi piace molto, la sintesi, l’efficacia delle parole.
Sulla nota stampa “Fake Queen”, il primo singolo, viene presentato un po’ come un ponte tra passato e presente, tra i primi due dischi e “Chances”: si è trattato di una cosa voluta oppure no? Nel senso, “questo pezzo è venuto così, facciamoci il singolo”.
G: Il discorso è stato, abbiamo fatto il disco, e nel momento in cui c’è stato da scegliere il “singolo” abbiamo scelto quel pezzo un po’ perché a livello di suoni è il più riuscito, secondo me, e poi perché come struttura e come tipo di arrangiamento c’è una certa continuità con il passato: voglio dire, non avrebbe avuto grosso senso proporre come singolo, che cazzo ne so, l’ultimo pezzo del disco…cioè volendo si può, puoi fare quello che vuoi, però per dare una certa continuità a quello che stiamo cercando di fare nei dischi e nella nostra storia, abbiamo scelto quel pezzo, ma non si è trattato di una scelta così ragionata o calibrata; avevamo undici pezzi, e quello è stato scelto perché è abbastanza immediato, perché ha degli elementi come delle seconde voci, delle sovraincisioni, che si staccano da “The swindler” e anche un po’ da “Small Rooms”, però ha anche quel tiro rock’n’roll in 4/4 che ricorda un po’ le cose vecchie…
Alessio: secondo me è più un ponte tra “The swindler” e “Chances”, “Small Rooms” è un po’ tagliato fuori da discorso, e poi è una cosa di cui ci siamo accorti dopo, ecco.
Perché il ragionamento che ho fatto io sentendo l’ultimo pezzo è stato, adesso vedi che partono per la tangente e virano verso questo tipo di cose, che non è certo un male, ma è comunque qualcosa che non avevate mai fatto…
G: guarda, a me piacciono molto i gruppi poliedrici, o i gruppi che riescono ad affrontare degli ambiti che non sono propriamente i loro, non voglio fare sempre lo stesso disco, è una noia mortale. Tra l’altro, l’aver affrontato una canzone così è una cosa che apre delle possibilità, perché abbiamo scoperto che potrebbe anche piacerci…l’esperienza acustica l’avevamo già fatta con quell’ep distribuito su internet dopo “The swindler” ed è una cosa che ci aveva già preso bene al tempo ma purtroppo non era stata gestita bene a livello di promozione eccetera, eravamo senza soldi, quindi…a sto giro in vece abbiamo detto, proviamo e vediamo, è una strada che a me comunque piace e interessa molto, e se si è sentito, tanto meglio.
Questa scelta di fare tutto in autonomia, avete creato la Super Fake per fare uscire il disco, il fatto di fare il video all’arci di Mantova, la scelta di autoprodurvi… personalmente, se avessi Favero (Giulio, bassista del Teatro degli Orrori) che mi produce, non lo mollerei più. Da cosa è nata questa esigenza, se poi di esigenza si è trattato?
Quello che dici effettivamente non è lontano da quello che penso anche io, perché trovo che Giulio al momento sia il miglior produttore in Italia, e non ho mai pensato di affidare la produzione a qualcun altro. Al momento di registrare quindi l’opzione Favero è stata ovviamente la prima, solo che un po’ ci siamo mossi tardi, e un po’ abbiamo detto, se non ci produce Giulio non sappiamo a chi chiedere e so già che non sarò contento del risultato, e se non devo essere contento del risultato voglio che sia colpa mia. E quindi la responsabilità è nostra. Giulio ha avuto l’ultima parola perché per me se dice che va bene, va bene…che poi non siamo mai d’accordo è un altro discorso…mi ha dato una mano durante la masterizzazione del disco, perché era la prima volta che toccavo un mixer, ero allo sbaraglio totale e mi ha dato qualche dritta all’inizio e alla fine sul mastering per far suonare tutto al meglio. Però è una cosa interessante ed è una cosa che consiglio a tutti quella di arrangiarsi, perché si scoprono un sacco di cose su se stessi come musicisti, perchè se hai qualcuno a cui dar la colpa non te ne rendi conto, è una questione psicologica, credo; sei tu che devi fare, decidi tu quello che va bene o no, e quindi il rischio è da una parte che non vada bene un cazzo oppure dal’altra che ti vada bene tutto…
A: entri nel loop della paranoia, non sai se quello che hai fatto va bene o no...
G: però è bello nel momento in cui sei tu a decidere, quando lo fai uscire quello è, poteva magari essere fatto meglio, l’idea c’è, quello che deve uscire esce, questo è il meglio che riesco a fare e in mezzo non c’è una terza persona che filtra e che migliora, o peggiora, quello che sto facendo.
Il fatto di autoprodurvi, quindi di non avere un occhio esterno che giudica o dà consigli, ha modificato in qualche modo le dinamiche e gli equilibri tra di voi?
G: il fatto di non avere obbiettività su quello che stai facendo, cioè di non avere un produttore che ti dice “questo si, questo no” - cosa che in effetti Giulio non fa, magari rompe i coglioni sul modo di fare le cose, su alcuni dettagli di arrangiamento, aggiungere o togliere cosa, ma non è che ti stravolge le canzoni, principalmente fa lavorare te…però il fatto di non essere obbiettivi è una cosa che ti rende anche estremamente sincero, ti trovi a dire “noi siamo così, nel bene e nel male”, e se la cosa va bene, siamo noi ad andare bene, se no c’è qualche problema ed è un problema solo nostro, e te ne accorgi subito…finché hai 15 anni e suoni in saletta va bene che ci sia qualcuno che ti dica dove andare, e a questo punto non dico che non serva, ma ci siamo sentiti così, anche un po’ arroganti da dire “me lo produco io, me lo stampo io, sono cazzi miei”.
Parlando dal punto di vista tecnico, qualche anno fa avevo intervistato Alessio, che mi aveva detto che per “Small Rooms” avevate provato in studio moltissima strumentazione, diversi amplificatori, chitarre, eccetera. Anche questa volta è stato così?
G: per “Small Rooms” era tutta strumentazione che avevamo recuperato in giro da amici piuttosto che da Giulio stesso, che ha moltissimi strumenti…questa volta molto di meno, non mi interessava tanto questo aspetto…in questo periodo mi sto riascoltando “Small Rooms”, in macchina ho la cassetta con da un lato quello e dall’altro “Chances”, e mi rendo conto oggi di quanto sia prodotto quel disco, Giulio ha fatto un gran lavoro, si sentono dettagli che in questo disco ovviamente non ci sono, perché io neanche sapevo dell’esistenza di certe cose, e però “Small Rooms” è un disco suonato in modo diverso dall’ultimo: questo è un disco registrato da gente che non ha nulla da perdere, mentre prima forse qualcosa da perdere ce l’avevamo, quindi eravamo anche un po’ intimoriti, ma era anche una situazione completamente diversa…trovo che “Small Rooms” suoni molto meglio dell’ultimo, però suona la metà dell’ultimo, è proprio una questione di atteggiamento diverso da parte di chi lo suona. Sta volta ci siamo trovati in studietti minuscoli, senza troppe pretese di produzione ma con la pura voglia, la necessità di fare un disco, e sono cose che cambiano poi il risultato…I miei dischi preferiti, nove su dieci sono registrati malissimo, potevano essere registrati molto meglio, però li ascolti e sono dischi della madonna: ti ascolti qualsiasi disco dei Karp e fa cagare, è registrato di merda, e sono suonati anche non così precisi…tutti i dischi degli Unwound sono registrati da culo, però li ascolti e spaccano…una volta ho letto un’intervista a King Buzzo dei Melvins nella quale gli chiedevano come mai non si erano mai fatti produrre da Steve Albini, perché era nel giro e lo conoscevano, e lui ha risposto che dei suoni non gliene fregava proprio un cazzo, lui voleva suonare e basta, è proprio un atteggiamento di base diverso.
Sempre nell’altra intervista che vi avevo fatto, mi avevate detto che prima di “Small Rooms” c’era stata una mezza idea di cantare in italiano, e dopo l’esperienza col Teatro degli Orrori pensavo che forse avresti scritto qualcosa in italiano, ma non è stato così. Perché?
G: l’idea in effetti c’è stata, sia nel disco vecchio che in questo c’è un pezzo su cui ho provato a mettere un testo in italiano, e il giorno in cui mi sentirò a mio agio con l’italiano, i testi verranno fuori, solo che per ora non me la sento ancora. Credo che sia anche quello un discorso di evoluzione o di percorso artistico di una persona, Capovilla (cantante del Teatro, ndr) ha cantato in inglese per quindici anni e quando ha deciso di farlo in italiano l’ha fatto con tale convinzione che è apparso subito credibile; se mi ci metto io che non sono a mio agio, si vede subito. Il problema della lingua per me è più di chi ascolta che di chi canta, perché io quello che devo dire lo dico in inglese, in italiano e anche in dialetto mantovano se vuoi, l’importante è che il mio messaggio passi; poi sta a te recepire il messaggio, se te lo devo infilare in bocca col cucchiaio te lo dico in italiano, se lo dico in inglese magari ci metti un po’ di più ma se hai voglia di sentire quello che sto dicendo ci arrivi, ecco.
Con l’italiano ci ho provato, ci sto provando anche in diverse cose, e quando mi verrà non ci sarà problema a cantare in italiano.
Parliamo di “A tale from the bottom”: a parte il fatto di essere un pezzo particolare per i Super Elastic, com’è venuta l’idea di scrivere un pezzo con strumenti particolari come il dobro o il violino, e come è nata la collaborazione con gente che viene da generi così diversi (tra gli altri, collaborano un jazzista ed un membro degli Africa Unite)?
G: l’idea originale per quel pezzo era di registrarlo con una banda di paese: quest’estate mi ero anche messo in contatto con la banda di un paese vicino a Mantova, avevamo provato a pensarci col direttore d’orchestra che però ha un modo di ragionare diverso, bisognava scrivere tutte le partiture eccetera, il che avrebbe raffreddato completamente l’intenzione del pezzo, perché sono di base due accordi, è tutto mood, e quindi non ci soddisfaceva e l’abbiamo lasciata lì. Poi siamo andati a mixare il disco a Torino e non l’avevamo ancora registrato, allora dato che a Mantova non aveva funzionato sta cosa, ho sentito un po’ di amici lì a Torino e ho chiesto di trovarmi qualcuno che potesse partecipare a questa cosa, l’importante era che fosse gente tranquilla, con cui si stia bene a livello musicale ma anche umano; ci hanno aiutato un paio di ragazzi dello studio, poi noi siamo particolarmente legati a Torino con la fondazione Caterina Farassino, che ci ha dato una mano a reperire altri contatti, così ci siamo trovati un giorno in studio in nove o dieci, un paio di amici da Mantova, abbiamo provato e in tre ore il pezzo era pronto, registrato in presa diretta; l’idea era di orchestrarlo ma farlo “alla vecchia”, cioè gente che suona e registra e si gode il momento, si diverte con quello che sta facendo, non legge gli spartiti.
A: la figata poi è stata che molti di quelli che erano lì il pezzo l’avevano sentito il giorno prima, non se l’erano neppure preparato, abbiamo provato un po’ ed era fatto…poi loro sono tutti dei musicisti della madonna, preparatissimi.
Sempre parlando di questo pezzo, ho notato che a differenza degli altri il testo è un po’ più positivo, meno pessimista; e questa cosa mi ha fatto pensare a “Murder Ballads” di Nick Cave, che tra l’altro viene citato anche nella cartella stampa. È possibile un parallelismo?
G: cazzo, figo, a questa cosa non avevo pensato! (ride, ndr) Si, in effetti l’idea è anche un po’ quella, perché in generale il disco non è molto ottimista nelle cose che dice…un testo così vuole risolve il resto, insomma, se dobbiamo vedere tutto come una merda tanto vale spararsi…e quindi piaceva l’idea di chiudere il disco con una nota diversa in tutti sensi, a partire dal fatto che è un pezzo acustico suonato con otto, nove elementi, al testo che ha dei riferimenti espliciti a Torino, per me che l’ho scritto, e quindi è stato importante che sia stato realizzato in quel modo e in quel luogo…
E per chiudere, come è stato ritrovarvi dopo la pausa “Teatro degli Orrori”?
A: quando abbiamo finito il tour di “Small Rooms” abbiamo subito iniziato a scrivere i pezzi per questo, non è che non ci siamo visti per due anni, ecco (ride, ndr). Anche perché i tempi erano strettissimi, per tutto abbiamo dovuto fare i conti con le disponibilità, Gionata non c’era nei fine settimana, negli altri giorni si lavorava, non avevamo poi tanto tempo…per “Small Rooms” alcuni pezzi erano già stati composti da tempo, quindi abbiamo potuto prendercela comoda, abbiamo passato un mese in studio e tutto il resto, qui invece zero, da quel punto di vista è stato molto difficile, ma se ci fosse stata una vera “pausa” non saremmo usciti adesso con un disco…
G: calcola che dalla registrazione all’uscita di “The Swindler” sono passati quasi due anni, quindi noi eravamo in paranoia perché non riuscivamo a far uscire il disco, però abbiamo continuato a scrivere pezzi, quindi quando è uscito “The Swindler” avevamo già un po’ di materiale da parte; e poi abbiamo avuto un anno per scrivere il resto, perciò “Small Rooms” è venuto fuori quasi in due anni e mezzo tra composizione e registrazione. A sto giro non è stato così, perché io ho fatto 135, 140 date col Teatro e quindi come ha detto lui il fine settimana non c’ero, dal lunedì al venerdì si lavora, arrivi al lunedì distrutto perché hai suonato il fine settimana, e col Teatro non è come con la Filarmonica di Vienna, e perciò tornato dal lavoro hai solo voglia di andare a letto. Quindi i tempi sono stati abbastanza ridotti, e abbiamo dovuto lavorare con ritmi molto serrati. La registrazione è stata fatta quest’estate in due mesi e mezzo quasi, però nei ritagli di tempo, cioè in pausa pranzo e dopo cena…quindi anche il fatto di aver lavorato in questo modo incide sul risultato finale, perché se ho poco tempo e non trovo il suono di chitarra preciso, chi se ne fotte e registro così, va bene. In effetti non ci siamo fatti sentire per un po’ proprio perché non era così scontato che sarebbe uscito adesso un disco dei Super Elastic, girava voce che ci fossimo sciolti…fare un disco in una situazione del genere e con tutti i problemi che ci sono stati, vuol dire che proprio volevamo farlo.
13/12/2008