Intervista a Davide Auteliano, cantante e bassista dei “Ministri”, Circolo degli artisti, Roma (12/11/2010)
Un mese fa è uscito il vostro ultimo album “Fuori”. Stasera terza data del Fuori tour. Come è ti è sembrato finora l’impatto da parte di critica e pubblico?
Ottimo, la gente viene sempre numerosa, soprattutto qui a Roma dove fare la doppia data è una cosa straordinaria. Dopo di noi la faranno solo Il Teatro degli Orrori e Carmen Consoli...insomma, sono contento.
Se è vero che il passaggio alla Universal non ha influito sull’ideazione e la produzione dei nuovi brani, come ci raccontate il percorso intrapreso da un sound più aggressivo e viscerale a uno più ricercato e “melodicamente pop”?
Innanzitutto bisogna fare un ragionamento su che cos’è “pop”. Sono cresciuto ascoltando musica pop; gli stessi Queen pur essendo una band rock avevano una forte spinta pop. Oggi ci sono generi che si sovrappongono così tanto che si sente il bisogno di etichettare. Io credo che il nostro sia un disco che ha uno scheletro pop, che vuole sicuramente arrivare a più gente.
Allora davvero a 40 anni realizzerete un disco alla Nick Cave, come avete dichiarato in passato?
Sì, lo confermo (ride). C’è il disco di un tour di Nick Cave coi Bad Seeds con brani country che mantiene sia una certa classe che un’attitudine punk, e per me questo è un obiettivo fondamentale, ma inteso come immaginario, non come riferimento stilistico diretto. Se riuscissimo ad arrivare a quella credibilità, a quella consapevolezza, sarebbe bellissimo.
Il testo di "Una questione politica" sembra il manifesto del vostro cambiamento, simboleggiato dalla frase "siamo cambiati è vero". Non avete temuto neppure per un attimo di deludere le aspettative del pubblico più affezionato?
La canzone è stata scritta da Federico e io come interprete ho visto in quella frase il senso di delusione nei confronti del mondo. Tutto è cambiato intorno a noi, soprattutto la dimensione politica. Se poi estensivamente lo si vuole legare al nostro percorso, va bene lo stesso perché è vero che siamo cambiati. Avevamo bisogno di fuggire da una situazione che è stata troppo strumentalizzata. Noi, come altri, abbiamo cercato di riproporre un genere che prima era molto di nicchia - come lo sono stati l’hardcore e un certo punk estremo - in modo più edulcorato a livello di sound per arrivare a più persone ma offrendo contenuti scomodi. Se avessimo fatto l’ennesimo disco tirando fuori gli stessi contenuti sarebbe stato troppo semplice. Viviamo in tempi in cui gli slogan li fanno tutti, soprattutto quelli che vogliono farti digerire che stare in questo Paese è una figata. Però sarebbe bene cominciare ad argomentare e a discutere di più, in profondità. Se siamo cambiati è accaduto perché era una necessità. Volevamo rinnovare il linguaggio in una direzione nuova, più semplice e diretta.
Il brano "Fuori" è un inno al senso di privazione d'identità e d'appartenenza. Da quale disagio nasce questa presa di coscienza? Dato questo vivere "ai margini", c'è qualcosa a cui pensate invece di “appartenere”?
Quel pezzo riassume il senso di tutto l’album. La minoranza siamo noi, “la nostra gente”, le persone pensanti che ci stanno attorno. Se vado in un centro commerciale di sabato pomeriggio mi sento uno straniero. In questo senso noi siamo realmente “fuori” perché abbiamo una serie di ideali e uno stile di vita diversi, per cui siamo emarginati senza saperlo. Questo concetto è sintetizzato nella lista quasi rinogaetanesca di luoghi, abitudini, situazioni elencate nel brano e da cui ci escludiamo ma al contempo paradossalmente ne facciamo parte, ma come minoranza. Dobbiamo difenderci perché abbiamo la responsabilità di cambiare le cose coordinandoci intelligentemente e smettendola di essere soggetti-oggetti. Una band come la nostra ha la fortuna di essere molto seguita e questo mi da l’ambizione di poter fare qualcosa di importante, voglio avere la responsabilità di creare una sorta di “religione”.
Fare musica in Italia oggi è come fare il prete 30 anni fa. E’una missione che non compi per soldi ma per degli ideali. Noi lo facciamo per una causa, che è quella di parlare del marcio che abbiamo intorno per farci sperare che un giorno questo Paese sia un luogo in cui essere felici e non da cui fuggire.
Si parla ormai da anni di crisi del mercato discografico, di download illegali. Eppure la presenza ai concerti è in aumento.
La musica è un media che si accompagna benissimo alla velocità di Internet. Io sono contrario a chi si ostina a dire che non bisogna scaricare i dischi. La tecnologia lo permette, va avanti e non si può fermare. Il vero guadagno ormai non viene più dalle vendite, quindi è una fortuna che la gente venga ai concerti. Incontro spesso band che si lamentano degli scarsi guadagni per colpa dei download illegali e degli alti costi che l’etichetta deve sostenere. Sono tutte cazzate. Perché se hai qualcosa da dire, un sound che spacca, fai gavetta e ti sacrifichi per raggiungere i risultati.
Per voi la comunicazione è tutto e avete il merito di sfruttare sapientemente il web per arrivare a quante più persone possibili, penso al vostro blog, al video-teaser de Il Sole in anteprima su Youtube. Il web alimenta l'idea che la musica sia un’arte libera, accessibile e condivisibile. Renderesti scaricabili gratuitamente i vostri album, magari con offerta libera, stile Radiohead?
Io lo farei sì, ma nei fatti cercherei di trovare qualcosa di nuovo. Includere un euro in ogni copia de “I soldi sono finiti” è stato un gesto simbolico, perché quella moneta rappresentava il nostro ricavo (diviso 3) per ogni cd venduto. E’ stata una buona idea, era il nostro primo album ed ha aiutato a farci conoscere pur essendo una trovata rischiosa. L’album parlava della nostra condizione di band emergente. Oggi siamo cresciuti, per cui più che alle trovate pubblicitarie puntiamo ai contenuti.
Avete un notevole seguito femminile tra i fan. A quando una canzone d’amore per loro?
Le canzoni d’amore sono difficilissime da scrivere. Pensa a “Amore che vieni, amore che vai” di De Andrè, per scriverla non puoi essere un pirla. Io ho 27 anni e dell’amore non so ancora un cazzo. E poi l’amore è una tematica che al tempo stesso è stata condizionata da quel pop che io reputo “malvagio”. Negli anni ’90 si è iniziato a parlare d’amore in modo più oscuro e controverso. Penso a tutta la discografia degli Afterhours, gruppo in tal senso molto diverso da noi che è arrivato sul palco di Sanremo dopo aver parlato tanto d’amore. “Il tuo odore è ossigeno” è una frase che si potrebbe tatuare addosso.
I vostri testi non racchiudono concetti astratti o difficilmente intellegibili ma forniscono suggestioni di tipo sensoriale ed emotivo. C'è un regista che potrebbe raccontare la vostra musica?
Se arrivasse Werner Herzog per realizzare un documentario sull’Italia musicale lo pregherei di venire a vedere quello che succede a noi. E’ un regista che mi piace perché sa unire il documentario alla filosofia e allo stile cinematografico creando una miscela scultorea, un’opera bellissima.
Intervista in collaborazione con Rubric.it
12/11/2010