
Quello che segue vuole essere un semplice tributo da parte nostra nei confronti di un musicista che in vent'anni di carriera ha influenzato una quantità spropositata di gruppi, generi e iconografie legate al mondo del metal.
Ed ha influenzato e cambiato anche noi che siamo cresciuti ascoltando la sua musica; divertendoci, esaltandoci, sfottendola e commovendoci a seconda del periodo della vita che stavamo attraversando.
Ricordo come fosse oggi il momento in cui, in prima superiore, uno che frequentava la mia scuola venne a presentarsi mettendo sul mio banco una pila di dischi, e mi disse di ascoltare prima di tutti l'esordio omonimo dei Bathory. Erano tutti dischi metal, con un raggio d'azione che andava dal semplice black metal al raw black metal. E qualcosa di thrash, giusto per cambiare toni e non fossilizzarsi troppo su un genere. Erano tutti una novità per me che venivo dai Maiden e da Ozzy con qualche puntata estrema e spericolata in un bootleg dei Sepultura raccattato in una bancarella.
Tormentor, Kreator, Destruction e Immortal diventarono a breve il mio credo, finché non mi capitò sotto al muso il cd di Reign in blood e da allora non ci fu più storia.
Però, c'era un gruppo che ancora rimaneva lì e di volta in volta, di ascolto in ascolto cresceva e sedimentava nel profondo, per poi venire dimenticato, fino al prossimo giro nel lettore, sul piatto o nel walkman.
I Bathory erano qualcosa di speciale, inspiegabile, affascinante e misterioso: un po' come i primi impulsi sessuali non sapevi bene cosa avevi davanti, non sapevi da che parte affrontare la faccenda, però una volta dentro sapevi che tutto nel mondo era giusto e al suo posto e ne volevi ancora, e ancora.
E proprio come i primi impulsi sessuali, erano circondati da un alone di mistero, voci, allusioni, supposizioni e sguardi incerti scambiati tra (quelli che avrebbero tanto voluto essere) iniziati al mondo sconosciuto; a tanti anni di distanza è commovente, anche se allora eravamo semplicemente degli scemi che restavano pietrificati davanti al minimo accenno di scollatura.
Nel ristretto giro di metallari, tutti rigorosamente più grandi di me, c'era il fattone perso che diceva di essere andato in Norvegia a conoscere Quorthon (che poi scoprii essere svedese, sottigliezze); un altro fattone, questa volta meno perso, era convinto di averlo conosciuto durante un concerto dei Bulldozer a Milano. Un altro, che si drogava con regolarità però riusciva ad avere sprazzi di lucidità, diceva di avere in casa tutta la discografia in vinile autografata. A casa sua ci sono stato, e no, di dischi in vinile autografati neanche l'ombra. Neanche in cd se è per questo.
E poi c'ero io, lo sfigato che non sapeva neanche cosa fossero le sigarette e stava ad ascoltare convinto di imparare chissà cosa. Sì, il discorso ha una sotto-traccia collegata agli impulsi sessuali accennati sopra, però non è che debba star qua a raccontarvi proprio tutto, no?
Ad ogni modo, anche se quelle voci ormai sono lontane e sepolte dagli anni e alcune sepolte dalla droga, ciò che continua a rimanere sono non solo il ricordo e il fascino di un gruppo adorato incondizionatamente quando eravamo ragazzini, è la musica che continua ad affascinare e cambiare sfumature anche a distanza di tanti anni.
Di episodi legati ai Bathory che hanno segnato il mio percorso musicale nel metal ce ne sono tanti, scegliendo a caso nella discografia, Blood on Ice rimane quello più straniante; di una pesantezza e di una durata oltre il sopportabile, con una copertina che tanto per cominciare non era un'orgia di nero come il primo album, e che contiene The Lake: una canzone che con le sue melodie e il suo racconto allo stesso tempo riesce a buttarti in fondo al lago di cui sopra e ad innalzarti nell'alto dei cieli.
Blood Fire Death, con quei due minuti di intro di A fine day to die, non ho mai capito come colui che aveva scritto War fosse riuscito anche solo a concepire tanta perfezione melodica. Fino a quando, anni dopo, scoprii che a Quorthon del metal fregava meno di zero, e che ascoltava solo e soltanto i Beatles (come dargli torto) e allora di nuovo ogni cosa tornò al suo posto e ad avere un senso.
Diverso il discorso per le citazioni che per un fan di Venom e Kreator sono più che palesi in Pace til death, oppure Dies Irae, fin troppo simile a Fight Fire With Fire dei Metallica; non ce ne fregava niente e continua ad essere così ancora oggi.
Quorthon era un essere misterioso e anche se maledettamente affascinante, da quelle due foto sgranate e in bianco e nero era in qualche modo una certezza confortante, lui e la sua musica c'erano, al contrario delle persone.
Non c'erano foto in giro, per quanti giornali comprassi non c'era ombra di un'intervista, di video manco a parlarne, ho dovuto aspettare i primi anni 2000 per vedere One Rode To Asa Bay scaricato da eMule, e anche lì non è che si capisse tanto bene. Però Quorthon c'era, c'era la sua voce stonata quando riusciva ad andargli bene, rantolante quando si impegnava e intonata e piena quando... quando, sinceramente non lo so; quello che so è che in tanti anni non ho mai capito come facesse a riuscirci. Sono passati una disgrazia di anni da allora e ancora oggi ne rimango affascinato. Ed è a questo che serve l'arte, è a questo che serve la musica, ed è per questo che abbiamo deciso di rendergli omaggio.
Dieci anni sono passati dannatamente in fretta.
- HRD
Stoccolma, 2007, cerco la tomba di Ace Börje Thomas Forsberg nel cimitero di Sandsborgskyrkogården, lotto 1 tomba 525. Noto ai più come Quorthon, prima fondatore e leader, poi Deus ex machina dei Bathory, trovato morto nel suo appartamento, una mattina di giugno: infarto miocardico acuto. Ricordo perfettamente cosa provai il giorno che appresi della sua morte, tre anni prima: non ci credevo, non ci volevo credere, non poteva, non lui. Non dopo essere tornato con Nordland I e II e durante la scrittura del capitolo III. Ricordo ci furono anche giorni di tira e molla. Quorthon era sempre stato circondato da quest'alone di irraggiungibile: poche le notizie, ancora meno le interviste, poteva essere un errore, un bruttissimo scherzo, doveva essere così.
La speranza è l’ultima a morire dicono, morì anche quella con la notizia ufficiale, ben sei giorni dopo quel maledetto 3 giugno 2004. Per molti era uno sconosciuto, per molti altri il vuoto artistico lasciato nell’underground rimarrà tale per sempre. Guardo fuori dal finestrino del treno che porta fuori città, Nordland I in cuffia.
È marzo e l’aria è fredda, molto fredda. La giornata è grigia, buia, immobile. Normalmente in Svezia l’aria è più rarefatta e le nuvole si muovono velocemente a causa del vento, oggi no. Il paesaggio della Svezia del sud scorre rapidamente, monotono, piatto, l’unica variante è l’alternanza continua di boschi e piccoli laghi. Il cimitero giace a lato di uno di questi boschetti, scendo dal treno, la stazione è molto vicina all’ingresso. Incontro il custode, un signore di mezza età, capo chino sulla sua scopa mentre spazza foglie e rami secchi, è ancora pieno inverno. “Ace Börje Thomas Forsberg ?“ domando. Senza molti convenevoli e per nulla sorpreso mi conduce nel suo ufficio-ripostiglio, da un cassetto estrae una mappa del cimitero e mi fa una croce a memoria sul punto esatto dove cercare. Deduco sia un gesto frequente per lui. Per trovare la tomba devo faticare non poco, il cimitero è irregolare, situato tra ruscelli, siepi e piccole collinette, ai margini di un bosco nero. Finalmente eccola: semplice, umile, in mezzo a tantissime altre, un piccolo mazzo di vecchi crisantemi lasciati lì accanto.
È lui. Per tanti versi uno tra tanti, eppure così geniale, così straripante. Mi fermo a rispettosa distanza, raccolto, Hammerheart (la canzone) in cuffia. È incredibile come ci si possa affezionare alle persone semplicemente attraverso la loro arte. Ripenso alla sua discografia…
- M.M.
Lunedì 15 Dicembre 2014 13:15
HRD